lunedì 1 dicembre 2014

SERGE LATOUCHE Il guru della decrescita: «La crisi? Può far bene»


Serge Latouche, economista, teorico della decrescita: oggi tiene una conferenza pubblica all'università
Serge Latouche, economista, teorico della decrescita: oggi tiene una conferenza pubblica all'università
Serge Latouche arriva da Parigi, in treno, di notte. Sulla lunga distanza preferisce la rotaia all'aereo, «troppo inquinante»; per i percorsi medio-brevi usa sempre la bicicletta perché, spiega, «è bello. Mentre pedalo, incontro persone, parlo, imparo. Come diceva il mio maestro, Ivan Illich, la bici è il simbolo di una vita a bassa energia e ad alta comunicazione». Però combinare un'intervista con il più celebre teorico della decrescita (alcuni lo chiamano guru o addirittura profeta) non è semplicissimo. Nell'epoca dello smartphone, Latouche pratica il tecnodigiuno. Non possiede cellulare né indirizzo e-mail. Lo raggiungiamo quindi per interposta persona, come si faceva una volta, attraverso il suo amico e ospite bresciano Marino Ruzzenenti, storico dell'industria e dell'ambiente.

Professor Latouche, certo è raro trovare qualcuno senza cellulare: perché?
Sono uno degli ultimi rimasti. Eppure si sta tanto meglio senza i cellulari! Potrei dire che fanno male, o che dietro a ogni cellulare c´è il sangue delle guerre fomentate dall'Occidente in Paesi come il Congo. Invece dico solo che senza telefonini si vive meglio. L'ansia cala, non hai più il Grande Fratello che ti segue dappertutto. Lo puoi capire anche senza sapere nulla di economia.

Lei vive anche senza automobile né tv. Non le sembra di esagerare?
Per niente: questo non è ascetismo, è benessere. La televisione potrebbe essere divertente, ma è lo strumento principale per la colonizzazione della nostra mente da parte dell'oligarchia economica. La pubblicità ossessiva ci induce tanti bisogni non necessari. Dobbiamo disintossicarci da questa droga per riprendere a vivere. Io, per esempio, adoro ascoltare buona musica, soprattutto la classica.

Ma lei sa che la parola decrescita, alla base del suo pensiero, fa paura? Soprattutto a chi, causa crisi, si trova a rinunciare per necessità e non per scelta.
La parola decrescita può spaventare solo chi non sa di cosa si tratta. È uno slogan provocatorio per far riflettere le persone. Io la chiamo anche prosperità senza crescita, o abbondanza frugale. È assurdo ostinarsi a rincorrere una crescita economica illimitata su un pianeta con risorse limitate. Lo sviluppo, ha detto Gilbert Rist, è una stella morta: se ne vede ancora la luce, ma si è spenta da tempo. La crescita è finita e non riprenderà più. L'Occidente finora si è comportato come il figliol prodigo della parabola evangelica: è vissuto non solo sul reddito, ma ha intaccato il patrimonio. Nel nord del mondo si consuma ogni anno il petrolio che si è accumulato nella Terra in 100mila anni. Rappresentiamo solo il 20 per cento della popolazione mondiale e consumiamo oltre l'80 per cento delle risorse. Se tutta l'umanità assumesse il tenore di vita degli Stati Uniti, dovremmo avere a disposizione cinque pianeti. L'Andalusia mangia pomodori olandesi e l'Olanda mangia pomodori andalusi. Sa come Illich definiva tutto questo? Assurdistan: è il Paese dove viviamo. Per soddisfare bisogni non necessari, abbiamo sacrificato i nostri figli e le generazioni future. La società dei consumi non è più sostenibile né auspicabile.

Ma il treno della crescita è in corsa da qualche secolo: dall'Illuminismo in poi, l'imperativo è sempre stato il progresso. Ci aspetta dunque un futuro da incubo?
L'incubo è il presente! Soprattutto per i più deboli. I nostri governi stanno tentando di prolungare una società di crescita in assenza della crescita. Ciò si traduce in disoccupazione, mancanza di risorse economiche per finanziare lo Stato sociale, l'assistenza sanitaria, l'istruzione pubblica… Tutte voci che i governi si trovano a dover tagliare, mettendo in sofferenza il popolo, mentre gli imprenditori si suicidano, in Italia come altrove. Secondo Adam Smith, un po' della ricchezza dei benestanti sarebbe arrivata ai più poveri per effetto di «sgocciolamento». Non è stato così. Piuttosto, siamo scivolati nella guerra di tutti contro tutti teorizzata da Hobbes. Bisogna cambiare, rinnegando il totalitarismo produttivista.

Eppure, i Paesi emergenti con Pil da capogiro non hanno concepito un diverso modello economico, anzi, hanno copiato il nostro. Perché?
Abbiamo fatto di tutto per trasmettere loro il virus della crescita a ogni costo. Perfino la Cina, che non ne voleva sapere del capitalismo, è stata infettata attraverso due guerre dell'oppio. E oggi si ritrova con il dramma dei mingong: milioni di migranti che lasciano le campagne, dove la vita è impossibile, per ammassarsi nelle inquinatissime periferie urbane e costruire il miracolo cinese in condizioni inumane, spesso finendo per suicidarsi. Ma ora anche la Cina si accorge di essere nei guai, obbligata a sospendere il lavoro nelle fabbriche perché, nelle metropoli come Pechino, lo smog ha raggiunto livelli mostruosi.

Spiegata la pars destruens; qual è la construens?
Bisogna costruire quella che io chiamo la società dell'abbondanza frugale. Una società, cioè, che ripudi la vecchia fede secondo cui il «di più» è uguale a meglio, il produttivismo e il consumismo sfrenati, l'esagerato spostamento di merci e di persone, l'enorme creazione di inquinamento e di rifiuti. Si produce ciò di cui si ha bisogno, e questa autolimitazione serena si chiama frugalità. Che non significa riduzione del benessere.

E come si attua?
Attraverso il programma delle otto R proposto al forum delle Ong di Rio: rivalutare, ricontestualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Si tratta di recuperare il senso del limite. Nel 2007, Sarkozy si fece eleggere presidente della Francia con questo mantra: «Lavorare di più per guadagnare di più». Una stupidità totale! Com'è stupido che l'Unione Europea chieda agli Stati membri di spostare in avanti l'età della pensione. Il risultato sono milioni di lavoratori che lavorano sempre di più per stipendi sempre più bassi, si stressano, impazziscono, si suicidano, e altri milioni di persone che invece non lavorano affatto. Lavorare meno per lavorare tutti è una delle misure per risolvere la disoccupazione. Ma non è l'unica.

Fra le altre, lei suggerisce il protezionismo. In Francia lo dice anche il Front National di Marine Le Pen: estrema destra…...
Lo so. C'è una parte insopportabile di ciò che dicono, ma non tutto è sbagliato. Come si può competere con la Cina? È una barzelletta. Perciò dobbiamo essere protezionisti in modo intelligente: un protezionismo sociale per permettere a tutti di lavorare, un protezionismo ecologico per salvare il pianeta, un protezionismo anche fiscale.

Ed esiste un Paese che ha imboccato la via giusta?
Molto interessante è l'esperimento intrapreso da Bolivia ed Ecuador, che hanno rifiutato il modello di sviluppo occidentale e introdotto nella Costituzione il principio del «bien vivir». Certamente non sarà facile per loro realizzare questo progetto, ma almeno c'è la volontà.

Il «ben vivere», insomma la felicità. Anche nella Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti c'è il diritto alla felicità, ma ha portato a tutt'altro risultato. Bisogna intendersi sul concetto: cos'è la felicità?
Il think tank britannico New Economics Foundation ha misurato l'Happy planet index, l'indice di felicità in ogni Paese. È emerso che i Paesi con il Pil più alto, come gli Stati Uniti, sono in fondo alla classifica. E sa chi c'è al primo posto? Nel 2006 il Vanuatu, nel 2012 la Costa Rica. Ecco il segreto. La felicità non deriva dalla potenziale soddisfazione di qualsiasi desiderio.
Lorenza Costantino

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